11. I Cahen e il ‘Japonisme’ (I): La Principessa del Paese di Porcellana

James Abbott McNeill Whistler (1834–1903) era nato in America, e cresciuto in Russia e Inghilterra, nel 1855 si era trasferito a Parigi dove si formò come pittore diventando amico di molti japonistes e dove poté comprare stampe giapponesi1Ayako Ono, Japonisme in Britain, op. cit., pp. 70–108; Giorgio Sica, Il vuoto e la bellezza: da Van Gogh a Rilke: come l’Occidente incontrò il Giappone, Napoli, Guida, 2012, pp. 78–81; Tomoko Sato, Toshio Watanabe, Japan and Britain: An Aesthetic Dialogue 1850–1930, London, Lund Humphries, 1991, p. 106.. Nel 1859 si spostò a Londra e nel suo studio sistemò la “rarissima collezione” di oggetti che utilizzava per ispirarsi, si trattava di porcellane cinesi, xilografie della scuola Ukiyo-e2Di Utagawa Hiroshige (1797–1858), Katsushika Hokusai (1760–1849), Torii Kiyonaga (1752–1815), Katsukawa Shuncho (attivo tra il 1783 e il 1795) e Utagawa Toyokuni (1769–1825)., un paravento giapponese di scuola Tosa3È una scuola pittorica attiva dal XV secolo, fondata da Mitsunobu Tosa (1434–1525) e proseguita fino al XIX secolo. I pittori Tosa erano i cultori dello stile Yamato-e, la corrente artistica più legata a temi e tecniche tradizionali del Giappone. con scene tratte dal Racconto di Genji, dei dipinti su rotolo (kakemono) e un raro libro di pittura giapponese. Pur stando a Londra Whistler era in contatto col negozio ‘La Porte Chinoise’4Ayako Ono, Japonisme in Britain, op. cit., pp. 70–108; si veda inoltre: Robin Spencer, Whistler and Japan: work in progress, in Chisaburo Yamada, Tatsuji Omori, Society for the Study of Japonisme (a cura di), Japonisme in Art. An International Symposium, Tokyo, Committee for the Year 2001, 1980, pp. 57–81; Nancy E. Green, “A Fan With a Stork Flying Over”. The Japanese Impact on American Aesthetics, in Nancy E. Green, Cristopher Reed (a cura di), JapanAmerica, op. cit., pp. 44–64. per delle lacche giapponesi e chiedeva all’amico Fantin Latour di verificare la qualità di un’antica zuppiera in vendita nel negozio parigino. A Londra Whistler si riforniva dalla ditta Farmer & Rogers ‘Oriental Warehouse’, il negozio che aveva acquistato diversi pezzi mostrati nell’esposizione universale del 1862. Nel negozio Whistler conobbe Arthur Lasenby Liberty (1843–1917), il commerciante che in seguito aprì un suo negozio denominato ‘East India House’ e che diffuse il gusto per l’Art nouveau ispirata al Giappone5Klaus Berger, Japonisme in Western Painting, op. cit., p. 33.. All’inizio del 1863 lo scrittore William Michael Rossetti (1829–1919) annotava che Whistler aveva mostrato, a lui e al fratello pittore Dante Gabriele Rossetti (1828–1882), delle stampe a colori, dei libri illustrati e dei paraventi. I fratelli Rossetti non avevano mai visto niente del genere e si misero anche loro a cercare oggetti orientali nei negozi della metropoli inglese6Jacques Dufwa, Winds from the East, op. cit., pp. 155–163; Siegfried Wichmann, Japonisme, op. cit., pp. 8–14; Ayako Ono, Japonisme in Britain, op. cit., pp. 70–108.. Negli stessi anni i fratelli Rossetti frequentavano la famiglia di Michael Spartali (1819–1914) e di Euphrosyne Valsami. Michael era nato in Turchia da una famiglia greca e alla tenera età di nove mesi si era trasferito con la famiglia a Trieste. Dopo aver studiato in Svizzera fino ai dodici anni, Michael e la famiglia si erano trasferiti nuovamente, a nord della città di Londra. Dal matrimonio tra Michael ed Euphrosyne erano nati quattro figli: Marie (1844–1927), Christina (fig. 10), Dimitrios (1851–1894) e Eustratius Hercules (1854–1933). Christina fu battezzata nel 1846 nella Chiesa Greca ortodossa, insieme a sua sorella fu educata al meglio per raggiungere la perfezione: greco, latino, lingue moderne, musica e disegno. William Michael Rossetti aveva trovato le due sorelle Spartali molto intelligenti e informate su diversi argomenti culturali7Linda Merrill, The Peacock Room: A Cultural Biography, Washington (D.C.), New Haven, Freer Gallery of Art, Smithsonian Institution; Yale University Press, 1998, pp. 69–73.. La bellezza di Christina era tale che vedendola camminare su un prato con un abito bianco, il poeta Algernon Charles Swinburne (1837–1909) mormorò “è così bella che voglio sedermi e piangere”8Alice S. Legé, Les Cahen d’Anvers, op. cit., p. 76 e pp. 308–314; Rikky Rooksby, A.C. Swinburne: A Poet’s Life, Aldershot, Scolar Press, 1997, p. 77.. Tra il 1863 e il 1864 Whistler cominciò a dipingere quattro tele che stabiliranno un punto fermo nella sua ricerca sull’ispirazione orientale9Jacques Dufwa, Winds from the East, op. cit., pp. 155–163.. Cominciamo con The Little White Girl, denominato anche Sinfonia in bianco, ritratto n. 2 (fig. 11) conservato alla Tate Britain di Londra, che presenta nella composizione almeno due elementi giapponesi, un ventaglio con una scena marina e una tazza di lacca rossa con coperchio sopra al caminetto, accanto alla tazza è rappresentata poi una porcellana cinese in bianco blu. Nella seconda tela, il Caprice in Purple and Gold denominato anche The Golden Screen (fig. 12) della Freer Gallery of Art di Washington la modella è vestita con un kimono ed è intenta a guardare le Vedute famose di oltre sessanta province di Utagawa Hiroshige (1797–1858), alle sue spalle c’è il paravento – byobu – dorato che darà il nome al quadro, da notare c’è inoltre una sedia giapponese pieghevole laccata e in basso a sinistra una porcellana cinese. La terza tela è intitolata The Lange Leizen of the Six Marks (fig. 13) ed è conservata nel Philadelphia Museum of Art, il nome deriva dal termine olandese con cui si indicavano le donne snelle delle porcellane cinesi che dominano la scena. I ‘Sei marchi’ si riferiscono agli ideogrammi con i nomi degli imperatori con cui venivano contrassegnate sul fondo le porcellane. Malgrado la preponderanza di opere cinesi, Whistler inserì anche elementi giapponesi: sul tavolo alle spalle della modella vestita in kimono c’è un paravento – byobu – chiuso e in alto Whistler dipinse due cartigli con ideogrammi di fantasia come quelli presenti nelle stampe giapponesi. Sul tavolo rappresentò nuovamente la tazza di lacca rossa con coperchio ed è molto interessante la presenza di pennelli orientali, compreso quello che la modella tiene in mano. Sul ripiano appoggiato al muro sono presenti altri due oggetti nipponici: un ventaglio con un airone e un vassoio laccato. I capelli sono raccolti e fermati con dei kanzashi, delle forcine metalliche utilizzate nelle acconciature tradizionali. La modella dei tre quadri appena descritti era Joanna Hiffernan (1843–1886), legata sentimentalmente allo stesso Whistler. Come modella per The Princess from the Land of Porcelain – La Principessa del Paese di Porcellana (fig. 14) venne scelta invece, come accennato, Christina Spartali. Il quadro fu iniziato nel 1863, con diversi oggetti della collezione rappresentati: due ventagli uchiwa10Lionel Lambourne, Japonisme, op. cit., p. 91., uno con un paesaggio marino ed uno con Iris nella mano di Christina; quest’ultima era abbigliata con un kimono e stava in piedi davanti ad un paravento – byobu – a fondo chiaro con dipinti fiori ed uccelli11In una lettera scritta ad Alexander Reid molti anni dopo, Whistler definì il kimono come una “vestaglia giapponese” e tutto il quadro venne descritto come “japonaise” in una missiva a Fantin-Latour, Ayako Ono, Japonisme in Britain, op. cit., pp. 70–108.. Nel quadro sono presenti anche due elementi cinesi: un vaso in porcellana della collezione del pittore ed un tappeto cinese imprestato dai fratelli Rossetti. Le sessioni di posa iniziarono durante l’inverno del 1863 e continuarono per tutto l’anno successivo. Christina andava nello studio insieme alla sorella Marie condividendo con lui pranzi rustici e ore di silenzio e conversazione12Alice S. Legé, Les Cahen d’Anvers, op. cit., p. 76 e pp. 308–314.. Whistler riuscì a completare il suo dipinto in tempo per presentarlo a Parigi, al Salon del 1865 dove fu appeso “in fila”13Lionel Lambourne, Japonisme, op. cit., p. 91. in una buona posizione. Malgrado qualche critica14Un critico descrisse il dipinto come “un pastiche chinois”, Lionel Lambourne, Japonisme, op. cit., p. 91. il quadro, che Whistler considerava la sua opera più importante15Jacques Dufwa, Winds from the East, op. cit., pp. 155–163., segnò il suo primo riconoscimento ufficiale in Francia. Il quadro rimase per qualche tempo nella bottega di Rossetti, dove fu acquistato per la prima volta da un collezionista sconosciuto, forse Charles Frederick Huth (1806–1895). Nel 1872 il dipinto passò poi a Frederick Leyland (1831–1892) che lo appese nella sua casa. Qui divenne un elemento fondamentale della famosa Peacock Room, una stanza progettata dall’architetto Thomas Jeckyll (1827–1881) e decorata dallo stesso Whistler tra il 1876 e il 1877. Nel 1904 l’industriale Charles Lang Freer (1854–1919) acquistò dagli eredi di Leyland tutta la stanza, compreso il quadro, e nel 1919 venne montata nella Freer Gallery of Art di Washington, da allora la stanza è considerata “il più importante interno del XIX secolo in un museo americano”16Milo Cleveland Beach, Foreword, in Linda Merrill, The Peacock Room, op. cit., p. 8.. Ma torniamo a Christina: posò nuovamente per Whistler per un quadro mai completato intitolato The Artist in His Studio (fig. 15)17Il quadro fu dipinto tra il 1865 e il 1866 ma Whistler continuò a ritoccarlo fino al 1875 ed oggi è conservato dall’Art Institute of Chicago. Rappresenta Whistler nel suo atelier con la Hiffernan in piedi e la Spartali seduta sul divano; si intravedono, in alto a sinistra, tre kakemono appesi alla parete, sul lato sinistro è visibile poi la collezione di porcellane cinesi. e per tre ritratti fotografici realizzati da Julia Margaret Pattle-Cameron (1815–1879). Il 4 dicembre del 1868 fu celebrato il matrimonio tra Christina Spartali ed Edoardo Cahen d’Anvers, dopo il matrimonio Christina lasciò Londra per seguire il marito a Firenze, Napoli e poi a Roma. Soggiornando regolarmente a Parigi, diede alla luce due figli: Teofilo-Rodolfo nacque il 15 novembre 1869, e Hugo l’11 febbraio 1874. Relegata al ruolo di madre quando aveva appena abbandonato il celibato, sprofondò in una depressione che diventò sempre più grave nel corso degli anni. All’età di venticinque anni, tre anni dopo il matrimonio e due anni dopo la nascita di Teofilo-Rodolfo, Christina si avvicinò a Napoli, per la prima volta, alla morte. Due anni dopo, nel 1873, trascorse cinque settimane a Londra in una clinica di disintossicazione dalla morfina, a quel tempo era probabilmente incinta del figlio più piccolo. Nonostante l’abbondanza dei suoi mezzi, Edoardo era apparentemente incapace di sostenere la moglie. Il primo matrimonio misto della famiglia Cahen d’Anvers, presto si trasformò in un’unione molto meno riuscita del previsto, tanto che nel 1880 Christina tentò anche di ottenere il divorzio18David B. Elliott, A Pre-Raphaelite Marriage: The Lives and Works of Marie Spartali Stillman and William James Stillman, Woodbridge, Antique Collectors’ Club Limited, 2006, p. 136; Jill Berk Jiminez, Joanna Banham, Dictionary of Artists’ Models, London, Taylor & Francis, 2001, pp. 509–511.. Nel 1884, l’anno in cui Edoardo acquistò il castello di Torre Alfina, Christina morì a Gries-Quirein, nei pressi di Bolzano. La Principessa del Paese di Porcellana non era sopravvissuta ai trattamenti dell’epoca: morfina, idrato di cloralio ed elettroshock19Alice S. Legé, Les Cahen d’Anvers, op. cit., p. 76 e pp. 308–314; Alice S. Legé (trad. Jennifer Donnelly), CAHEN D’ANVERS Hugo, 21/03/2022, op. cit.; Linda Merrill, The Peacock Room, op. cit., pp. 69–73., aveva trentotto anni e il figlio più giovane Hugo solo dieci.

Fig. 10 – Christina Spartali Cahen d’Anvers

Fig. 10 – Christina Spartali Cahen d’Anvers

Fig. 11 - James Abbott McNeill Whistler: The Little White Girl (Tate Britain, London)

Fig. 11 – James Abbott McNeill Whistler: The Little White Girl
(Tate Britain, London)

Fig. 12 - James Abbott McNeill Whistler: The Golden Screen (Freer Gallery of Art, Washington)

Fig. 12 – James Abbott McNeill Whistler: The Golden Screen
(Freer Gallery of Art, Washington)

Fig. 13 - James Abbott McNeill Whistler: The Lange Leizen of the Six Marks (Museum of Art, Philadelphia)

Fig. 13 – James Abbott McNeill Whistler: The Lange Leizen of the Six Marks (Museum of Art, Philadelphia)

Fig. 14 - James Abbott McNeill Whistler: The Princess from the Land of Porcelain (Freer Gallery of Art, Washington).

Fig. 14 – James Abbott McNeill Whistler: The Princess from the Land of Porcelain (Freer Gallery of Art, Washington).

Fig. 15 - James Abbott McNeill Whistler: The Artist in His Studio (Art Institute, Chicago).

Fig. 15 – James Abbott McNeill Whistler: The Artist in His Studio(Art Institute, Chicago).

Note

  • 1
    Ayako Ono, Japonisme in Britain, op. cit., pp. 70–108; Giorgio Sica, Il vuoto e la bellezza: da Van Gogh a Rilke: come l’Occidente incontrò il Giappone, Napoli, Guida, 2012, pp. 78–81; Tomoko Sato, Toshio Watanabe, Japan and Britain: An Aesthetic Dialogue 1850–1930, London, Lund Humphries, 1991, p. 106.
  • 2
    Di Utagawa Hiroshige (1797–1858), Katsushika Hokusai (1760–1849), Torii Kiyonaga (1752–1815), Katsukawa Shuncho (attivo tra il 1783 e il 1795) e Utagawa Toyokuni (1769–1825).
  • 3
    È una scuola pittorica attiva dal XV secolo, fondata da Mitsunobu Tosa (1434–1525) e proseguita fino al XIX secolo. I pittori Tosa erano i cultori dello stile Yamato-e, la corrente artistica più legata a temi e tecniche tradizionali del Giappone.
  • 4
    Ayako Ono, Japonisme in Britain, op. cit., pp. 70–108; si veda inoltre: Robin Spencer, Whistler and Japan: work in progress, in Chisaburo Yamada, Tatsuji Omori, Society for the Study of Japonisme (a cura di), Japonisme in Art. An International Symposium, Tokyo, Committee for the Year 2001, 1980, pp. 57–81; Nancy E. Green, “A Fan With a Stork Flying Over”. The Japanese Impact on American Aesthetics, in Nancy E. Green, Cristopher Reed (a cura di), JapanAmerica, op. cit., pp. 44–64.
  • 5
    Klaus Berger, Japonisme in Western Painting, op. cit., p. 33.
  • 6
    Jacques Dufwa, Winds from the East, op. cit., pp. 155–163; Siegfried Wichmann, Japonisme, op. cit., pp. 8–14; Ayako Ono, Japonisme in Britain, op. cit., pp. 70–108.
  • 7
    Linda Merrill, The Peacock Room: A Cultural Biography, Washington (D.C.), New Haven, Freer Gallery of Art, Smithsonian Institution; Yale University Press, 1998, pp. 69–73.
  • 8
    Alice S. Legé, Les Cahen d’Anvers, op. cit., p. 76 e pp. 308–314; Rikky Rooksby, A.C. Swinburne: A Poet’s Life, Aldershot, Scolar Press, 1997, p. 77.
  • 9
    Jacques Dufwa, Winds from the East, op. cit., pp. 155–163.
  • 10
    Lionel Lambourne, Japonisme, op. cit., p. 91.
  • 11
    In una lettera scritta ad Alexander Reid molti anni dopo, Whistler definì il kimono come una “vestaglia giapponese” e tutto il quadro venne descritto come “japonaise” in una missiva a Fantin-Latour, Ayako Ono, Japonisme in Britain, op. cit., pp. 70–108.
  • 12
    Alice S. Legé, Les Cahen d’Anvers, op. cit., p. 76 e pp. 308–314.
  • 13
    Lionel Lambourne, Japonisme, op. cit., p. 91.
  • 14
    Un critico descrisse il dipinto come “un pastiche chinois”, Lionel Lambourne, Japonisme, op. cit., p. 91.
  • 15
    Jacques Dufwa, Winds from the East, op. cit., pp. 155–163.
  • 16
    Milo Cleveland Beach, Foreword, in Linda Merrill, The Peacock Room, op. cit., p. 8.
  • 17
    Il quadro fu dipinto tra il 1865 e il 1866 ma Whistler continuò a ritoccarlo fino al 1875 ed oggi è conservato dall’Art Institute of Chicago. Rappresenta Whistler nel suo atelier con la Hiffernan in piedi e la Spartali seduta sul divano; si intravedono, in alto a sinistra, tre kakemono appesi alla parete, sul lato sinistro è visibile poi la collezione di porcellane cinesi.
  • 18
    David B. Elliott, A Pre-Raphaelite Marriage: The Lives and Works of Marie Spartali Stillman and William James Stillman, Woodbridge, Antique Collectors’ Club Limited, 2006, p. 136; Jill Berk Jiminez, Joanna Banham, Dictionary of Artists’ Models, London, Taylor & Francis, 2001, pp. 509–511.
  • 19
    Alice S. Legé, Les Cahen d’Anvers, op. cit., p. 76 e pp. 308–314; Alice S. Legé (trad. Jennifer Donnelly), CAHEN D’ANVERS Hugo, 21/03/2022, op. cit.; Linda Merrill, The Peacock Room, op. cit., pp. 69–73.