10. La nascita del ‘Japonisme’
Il termine Japonisme era stato coniato dal critico e collezionista francese Philippe Burty (1830–1890) nel 1872 in degli articoli pubblicati sulla rivista La Renaissance littéraire et artistique, e Burty lo associava allo “studio dell’arte e del genio del Giappone”1La citazione si riferisce alla versione inglese dell’articolo originale pubblicata nel 1875, Ayako Ono, Japonisme in Britain: Whistler, Menpes, Henry, Hornel, and 19th century Japan, New York, Routledge Curzon, 2003, p. 22. Gli articoli vennero scritti da Burty per polemizzare con Jules-Antoine Castagnary (1830–1888) che aveva definito la passione per il Giappone come un “capriccio di un dilettante stanco”. Burty intendeva invece dimostrare che i giapponesi avevano “poeti, poeti puri, degni di toccare menti curiose e delicate”, Sophie Basch, Philippe Burty contre Castagnary. Philologie du Japonisme, “ce caprice de dilettante blasé” suivi de : Le “jeu japonais”, de Marcel Proust à Ernest Chesneau, Académie royale de langue et de littérature française de Belgique, Communication à la séance mensuelle du 13 mars 2021, pp. 24–26. Sul concetto si vedano anche: Flavio Caroli, Arte d’oriente e arte d’occidente. Per una storia delle immagini nell’era della globalità, Milano, Electa, 2006, pp. 114–118; Ilde Marino, Esotismo, architettura e arti decorative nelle esposizioni universali 1851-1900, Firenze, Altralinea, 2016, pp. 60–66.. Oggetti giapponesi avevano raggiunto l’Europa dalla fine del XVI secolo e anche la chiusura del paese, avvenuta nel 1641, non aveva interrotto il flusso, gestito dagli olandesi, di lacche e porcellane destinate all’esportazione2Charlotte van Rappard-Boon (a cura di), Imitation and inspiration: Japanese influence on Dutch art from 1650 to the present, Amsterdam, Rijksmuseum, 1991.. Nel 1853-1854 il paese fu costretto a riaprire i porti alle potenze straniere3In seguito alla nota prova di forza di una flottiglia statunitense comandata dal commodoro Matthew Calbraith Perry (1794–1858). e a poco a poco cominciarono ad arrivare anche delle opere realizzate per il mercato interno: nel 1856 il pittore Félix Bracquemond (1833–1914) vide presso lo stampatore Auguste Delâtre dei volumi dei Manga di Hokusai4Katsushika Hokusai (1760–1849) cominciò a pubblicare questa raccolta di schizzi nel 1814; dei 15 volumi complessivi, tre furono pubblicati postumi. (figg. 8-9), dopo un anno riuscì a comprarne uno da cui non si separò più, facendone il suo breviario e condividendolo con gli amici artisti5Jacques Dufwa, Winds from the East. A Study in the Art of Manet, Degas, Monet and Whistler 1856–86, Atlantic Highlands, N. J., USA, Almqvist & Wiksell International, 1981, p. 39; Siegfried Wichmann, Japonisme. The Japanese influence on Western Art in the 19th and 20th Centuries, New York, Harmony Books, 1980, pp. 8–14. Negli stessi anni comparvero i primi oggetti giapponesi anche in Gran Bretagna, Ayako Ono, Japonisme in Britain, op. cit., p. 26.. Perché si creò tanto entusiasmo? Oggi è difficile comprenderlo, ma “le scatole, con i loro fini intagli […] le lacche decorate con disegni smaglianti, i bronzi chimerici” venduti a prezzi folli6Zacharie Astruc, Beaux-Arts. L’Empire du Soleil-Levant, in Feuilleton de L’Etendard, 27 février 1867, citato in: Geneviève Lacambre, Anthologie, in Shuji Takashina, Galeries Nationales d’Exposition du Grand Palais, Kokuritsu Seiyo Bijutsukan (direction de la publication), Le Japonisme: Galeries nationales du Grand Palais, Paris, 17.5.1988; Musée national d’art occidental, Tokyo, 23.9.–11.12.1988, Paris, Réunion des musées nationaux, 1988, pp. 126–141. creavano un nuovo modo di vedere il mondo. Davanti alle opere giapponesi gli artisti perdevano la ragione7Adrien Dubouché, La céramique contemporaine à l’Exposition universelle, in L’Art, 20 octobre 1878, p. 57, citato in: Geneviève Lacambre, Anthologie, op. cit., pp. 126–141., consapevoli della “prodigiosa facilità con cui la fantasia giapponese [formulava] un’innumerevole varietà di motivi brillanti”8Siegfried Bing, Programme, in Le Japon artistique, nº 1, mai 1888, pp. 2–7, citato in: Geneviève Lacambre, Anthologie, op. cit., pp. 126–141., di colori vibranti9Argyro Loukaki, The Geographical Unconscious, London, Routledge, 2016, pp. 277–280., di composizioni e punti di vista innovativi, ottenuti tra l’altro con una disarmante facilità10Come faceva notare il critico Ernest Chesneau (1833–1890) nella recensione Le Japon à Paris dell’esposizione del 1878 a Parigi, Jacques Dufwa, Winds from the East, op. cit., p. 42.. Dopo aver visto gli oggetti giapponesi nelle esposizioni universali tutti gli altri oggetti sembravano banali e volgari11 “La magnificenza dei loro esemplari è eguagliata solo dalla loro squisita delicatezza. Dopo la collezione giapponese tutto sembra banale, quasi volgare”, il commento di un cronista si riferisce all’esposizione centennale delle arti di Filadelfia del 1876, Nancy E. Green, “A Fan With a Stork Flying Over”. The Japanese Impact on American Aesthetics, in Nancy E. Green, Christopher Reed (a cura di), JapanAmerica. Points of Contact, 1876–1970, Ithaca, NY, Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University, 2016, pp. 44–64. Secondo i critici alcune opere giapponesi derivavano da un’immaginazione poetica che non era esistita neanche nei migliori pezzi del Medioevo o del Rinascimento europeo12L’opinione era di Edmond de Goncourt, riportata in: Klaus Berger, Japonisme in Western Painting from Whistler to Matisse, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, p. 1. Scrive Edmund de Waal: “Nell’ambito dell’arte giapponese, la mancanza di un canone è stimolante, non c’è nessuna cappa di erudizione a condizionare l’intuito, la reazione immediata di fronte all’oggetto. È insomma quasi un nuovo Rinascimento che si sviluppa grazie all’opportunità di avere materialmente fra le mani queste autentiche e antiche opere d’arte orientali. Opere che si potevano avere in abbondanza, e subito”, Edmund de Waal, Un’eredità di avorio e ambra, op. cit., pp. 59–62.. Nell’esposizione universale di Londra del 1862 il Giappone ebbe il suo primo padiglione, in cui vennero principalmente esposti gli oggetti della collezione del diplomatico britannico John Rutherford Alcock (1809–1897)13Nel 1859 Rutherford Alcock era stato mandato in Giappone e vi rimase fino al 1865. Anche nella prima esposizione universale, quella del 1851, erano presenti delle ceramiche giapponesi esposte dal feudatario (daimyo) di Satsuma, ma i tempi non erano ancora pronti, essendo il paese ancora chiuso ai commerci, Lionel Lambourne, Japonisme: Cultural Crossings Between Japan and the West, Berlin, Phaidon, 2011, pp. 70–72; Joe Earle, Khalili Family Trust, Splendors of Imperial Japan: Arts of the Meiji Period from the Khalili Collection, London, Khalili Family Trust, 2002, p. 28.. Non si trattava di una partecipazione diretta del paese, tuttavia l’esposizione consentì al Giappone di avere un’identità culturale distinta da quella del più generico ‘Oriente’14Nel 1878 il designer Christopher Dresser (1834–1904) ammise in una conferenza che, grazie alla disponibilità di Rutherford Alcock, all’esposizione londinese era stato possibile per il pubblico inglese conoscere l’arte nipponica, Ayako Ono, Japonisme in Britain, op. cit., pp. 27–28.. Nell’esposizione successiva, quella del 1867 a Parigi, il Giappone ebbe il primo padiglione ufficiale15Lionel Lambourne, Japonisme, op. cit., pp. 70–72; Shuji Takashina, Problèmes du Japonisme, in Shuji Takashina, Galeries Nationales d’Exposition du Grand Palais, Kokuritsu Seiyo Bijutsukan (direction de la publication), Le Japonisme, op. cit., pp. 16–21., promosso dall’ultimo shogun (primo ministro militare) Tokugawa Yoshinobu (1837–1913), che si sarebbe dimesso nello stesso anno16L’esposizione finì il 3 novembre e Yoshinobu si dimise il 19 novembre. Napoleone III aveva mandato un contingente militare a supporto dello shogun, ma il governo militare era ormai al collasso.. I successivi governi patrocinati dell’imperatore Meiji (1852–1912)17In carica dal 1867 al 1912. avrebbero rinsaldato i rapporti culturali18Con la riforma Meiji vennero chiamati in Giappone più di duemila consulenti stranieri (O-yatoi Gaikokujin) per insegnare nelle università e per istituire industrie moderne e centri di ricerca. In campo artistico si segnalano tra gli italiani l’architetto Giovanni Vincenzo Cappelletti (1843–1887), l’incisore Edoardo Chiossone (1833–1898), il pittore Antonio Fontanesi (1818–1882) e lo scultore Vincenzo Ragusa (1841–1927). Dalla Gran Bretagna giunsero l’architetto Josiah Conder (1852–1920), lo scrittore Patrick Lafcadio Hearn (1850–1904) e l’ingegnere-fotografo William Kinnimond Burton (1856–1899). Tra gli statunitensi si segnalano lo zoologo e orientalista Edward Sylvester Morse (1838–1925) e il filosofo e critico d’arte Ernest Francisco Fenollosa (1853–1908). Tre dei consulenti citati – Morse, Conder ed Hearn – furono tra i primi a descrivere i giardini giapponesi, ma ci torneremo più avanti. e commerciali con i paesi occidentali, visti anche come mercati di sbocco per i prodotti artistici19Joe Earle, Splendors of Imperial Japan, op. cit., p. 28. L’esposizione del 1867 stimolò Philippe Burty a fondare una società semiclandestina, detta Jing-lar, e formata da suoi amici, artisti e scrittori, appassionati di Giappone. I dieci membri20Oltre ai già citati Burty, Bracquemond e Chesneau, facevano parte della società lo storico dell’arte Léonce Bénédite (1859–1925), i pittori Henri Fantin-Latour (1836–1904), Alphonse Hirsch (1843–1884), Carolus Duran (1837–1917), l’incisore Jules-Ferdinand Jacquemart (1837–1880), il ceramista Marc Louis-Emmanuel Solon (1835–1913), lo scultore e scrittore Zacharie Astruc (1833–1907). del Jing-lar si riunivano quasi ogni mese per parlare della cultura nipponica, indossando kimono e mangiando con le bacchette21Jan Walsh Hokenson, Japan, France, and East-West Aesthetics: French Literature, 1867–2000, Madison, Fairleigh Dickinson University Press, 2004, pp. 425–426.. Ai dieci partecipanti della società di Burty gli storici aggiungono altri dodici, tra artisti e scrittori, che possono considerarsi a pieno titolo i primi japonistes22Tra gli artisti: Edgar Degas (1834–1917), Édouard Manet (1832–1883), Oscar-Claude Monet (1840–1926), James Tissot (1836–1902), James Abbott McNeill Whistler (1834–1903) e Frédéric Villot (1809–1875). Gli scrittori comprendevano: Charles Baudelaire (1821–1867), Edmond de Goncourt (1822–1896), Jules de Goncourt (1830–1870), Émile Zola (1840–1908), Edmond Duranty (1833–1880), Jules Champfleury (1821–1889). Klaus Berger, Japonisme in Western Painting, op. cit., pp. 10–19.. A noi ne interessa in particolare uno per il suo collegamento con Christina Spartali, la madre del committente della Villa di Allerona, Hugo Cahen. Il japoniste in questione è il pittore James Abbott McNeill Whistler, il primo grande maestro che, secondo il critico d’arte Ernest Fenollosa (1853–1908), era stato capace di mescolare Oriente e Occidente senza artificio23Ernest Fenollosa, The Place in History of Mr. Whistler’s Art, in Lotos, Special Issue (December 1903), pp. 14–17..

Fig. 9 – Hokusai: Hokusai xilografia con cultivar di crisantemo dal secondo volume dei Manga.
di crisantemo dal secondo volume dei Manga.
Note
- 1La citazione si riferisce alla versione inglese dell’articolo originale pubblicata nel 1875, Ayako Ono, Japonisme in Britain: Whistler, Menpes, Henry, Hornel, and 19th century Japan, New York, Routledge Curzon, 2003, p. 22. Gli articoli vennero scritti da Burty per polemizzare con Jules-Antoine Castagnary (1830–1888) che aveva definito la passione per il Giappone come un “capriccio di un dilettante stanco”. Burty intendeva invece dimostrare che i giapponesi avevano “poeti, poeti puri, degni di toccare menti curiose e delicate”, Sophie Basch, Philippe Burty contre Castagnary. Philologie du Japonisme, “ce caprice de dilettante blasé” suivi de : Le “jeu japonais”, de Marcel Proust à Ernest Chesneau, Académie royale de langue et de littérature française de Belgique, Communication à la séance mensuelle du 13 mars 2021, pp. 24–26. Sul concetto si vedano anche: Flavio Caroli, Arte d’oriente e arte d’occidente. Per una storia delle immagini nell’era della globalità, Milano, Electa, 2006, pp. 114–118; Ilde Marino, Esotismo, architettura e arti decorative nelle esposizioni universali 1851-1900, Firenze, Altralinea, 2016, pp. 60–66.
- 2Charlotte van Rappard-Boon (a cura di), Imitation and inspiration: Japanese influence on Dutch art from 1650 to the present, Amsterdam, Rijksmuseum, 1991.
- 3In seguito alla nota prova di forza di una flottiglia statunitense comandata dal commodoro Matthew Calbraith Perry (1794–1858).
- 4Katsushika Hokusai (1760–1849) cominciò a pubblicare questa raccolta di schizzi nel 1814; dei 15 volumi complessivi, tre furono pubblicati postumi.
- 5Jacques Dufwa, Winds from the East. A Study in the Art of Manet, Degas, Monet and Whistler 1856–86, Atlantic Highlands, N. J., USA, Almqvist & Wiksell International, 1981, p. 39; Siegfried Wichmann, Japonisme. The Japanese influence on Western Art in the 19th and 20th Centuries, New York, Harmony Books, 1980, pp. 8–14. Negli stessi anni comparvero i primi oggetti giapponesi anche in Gran Bretagna, Ayako Ono, Japonisme in Britain, op. cit., p. 26.
- 6Zacharie Astruc, Beaux-Arts. L’Empire du Soleil-Levant, in Feuilleton de L’Etendard, 27 février 1867, citato in: Geneviève Lacambre, Anthologie, in Shuji Takashina, Galeries Nationales d’Exposition du Grand Palais, Kokuritsu Seiyo Bijutsukan (direction de la publication), Le Japonisme: Galeries nationales du Grand Palais, Paris, 17.5.1988; Musée national d’art occidental, Tokyo, 23.9.–11.12.1988, Paris, Réunion des musées nationaux, 1988, pp. 126–141.
- 7Adrien Dubouché, La céramique contemporaine à l’Exposition universelle, in L’Art, 20 octobre 1878, p. 57, citato in: Geneviève Lacambre, Anthologie, op. cit., pp. 126–141.
- 8Siegfried Bing, Programme, in Le Japon artistique, nº 1, mai 1888, pp. 2–7, citato in: Geneviève Lacambre, Anthologie, op. cit., pp. 126–141.
- 9Argyro Loukaki, The Geographical Unconscious, London, Routledge, 2016, pp. 277–280.
- 10Come faceva notare il critico Ernest Chesneau (1833–1890) nella recensione Le Japon à Paris dell’esposizione del 1878 a Parigi, Jacques Dufwa, Winds from the East, op. cit., p. 42.
- 11“La magnificenza dei loro esemplari è eguagliata solo dalla loro squisita delicatezza. Dopo la collezione giapponese tutto sembra banale, quasi volgare”, il commento di un cronista si riferisce all’esposizione centennale delle arti di Filadelfia del 1876, Nancy E. Green, “A Fan With a Stork Flying Over”. The Japanese Impact on American Aesthetics, in Nancy E. Green, Christopher Reed (a cura di), JapanAmerica. Points of Contact, 1876–1970, Ithaca, NY, Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University, 2016, pp. 44–64
- 12L’opinione era di Edmond de Goncourt, riportata in: Klaus Berger, Japonisme in Western Painting from Whistler to Matisse, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, p. 1. Scrive Edmund de Waal: “Nell’ambito dell’arte giapponese, la mancanza di un canone è stimolante, non c’è nessuna cappa di erudizione a condizionare l’intuito, la reazione immediata di fronte all’oggetto. È insomma quasi un nuovo Rinascimento che si sviluppa grazie all’opportunità di avere materialmente fra le mani queste autentiche e antiche opere d’arte orientali. Opere che si potevano avere in abbondanza, e subito”, Edmund de Waal, Un’eredità di avorio e ambra, op. cit., pp. 59–62.
- 13Nel 1859 Rutherford Alcock era stato mandato in Giappone e vi rimase fino al 1865. Anche nella prima esposizione universale, quella del 1851, erano presenti delle ceramiche giapponesi esposte dal feudatario (daimyo) di Satsuma, ma i tempi non erano ancora pronti, essendo il paese ancora chiuso ai commerci, Lionel Lambourne, Japonisme: Cultural Crossings Between Japan and the West, Berlin, Phaidon, 2011, pp. 70–72; Joe Earle, Khalili Family Trust, Splendors of Imperial Japan: Arts of the Meiji Period from the Khalili Collection, London, Khalili Family Trust, 2002, p. 28.
- 14Nel 1878 il designer Christopher Dresser (1834–1904) ammise in una conferenza che, grazie alla disponibilità di Rutherford Alcock, all’esposizione londinese era stato possibile per il pubblico inglese conoscere l’arte nipponica, Ayako Ono, Japonisme in Britain, op. cit., pp. 27–28.
- 15Lionel Lambourne, Japonisme, op. cit., pp. 70–72; Shuji Takashina, Problèmes du Japonisme, in Shuji Takashina, Galeries Nationales d’Exposition du Grand Palais, Kokuritsu Seiyo Bijutsukan (direction de la publication), Le Japonisme, op. cit., pp. 16–21.
- 16L’esposizione finì il 3 novembre e Yoshinobu si dimise il 19 novembre. Napoleone III aveva mandato un contingente militare a supporto dello shogun, ma il governo militare era ormai al collasso.
- 17In carica dal 1867 al 1912.
- 18Con la riforma Meiji vennero chiamati in Giappone più di duemila consulenti stranieri (O-yatoi Gaikokujin) per insegnare nelle università e per istituire industrie moderne e centri di ricerca. In campo artistico si segnalano tra gli italiani l’architetto Giovanni Vincenzo Cappelletti (1843–1887), l’incisore Edoardo Chiossone (1833–1898), il pittore Antonio Fontanesi (1818–1882) e lo scultore Vincenzo Ragusa (1841–1927). Dalla Gran Bretagna giunsero l’architetto Josiah Conder (1852–1920), lo scrittore Patrick Lafcadio Hearn (1850–1904) e l’ingegnere-fotografo William Kinnimond Burton (1856–1899). Tra gli statunitensi si segnalano lo zoologo e orientalista Edward Sylvester Morse (1838–1925) e il filosofo e critico d’arte Ernest Francisco Fenollosa (1853–1908). Tre dei consulenti citati – Morse, Conder ed Hearn – furono tra i primi a descrivere i giardini giapponesi, ma ci torneremo più avanti.
- 19Joe Earle, Splendors of Imperial Japan, op. cit., p. 28
- 20Oltre ai già citati Burty, Bracquemond e Chesneau, facevano parte della società lo storico dell’arte Léonce Bénédite (1859–1925), i pittori Henri Fantin-Latour (1836–1904), Alphonse Hirsch (1843–1884), Carolus Duran (1837–1917), l’incisore Jules-Ferdinand Jacquemart (1837–1880), il ceramista Marc Louis-Emmanuel Solon (1835–1913), lo scultore e scrittore Zacharie Astruc (1833–1907).
- 21Jan Walsh Hokenson, Japan, France, and East-West Aesthetics: French Literature, 1867–2000, Madison, Fairleigh Dickinson University Press, 2004, pp. 425–426.
- 22Tra gli artisti: Edgar Degas (1834–1917), Édouard Manet (1832–1883), Oscar-Claude Monet (1840–1926), James Tissot (1836–1902), James Abbott McNeill Whistler (1834–1903) e Frédéric Villot (1809–1875). Gli scrittori comprendevano: Charles Baudelaire (1821–1867), Edmond de Goncourt (1822–1896), Jules de Goncourt (1830–1870), Émile Zola (1840–1908), Edmond Duranty (1833–1880), Jules Champfleury (1821–1889). Klaus Berger, Japonisme in Western Painting, op. cit., pp. 10–19.
- 23Ernest Fenollosa, The Place in History of Mr. Whistler’s Art, in Lotos, Special Issue (December 1903), pp. 14–17.